BENEDETTA LA TUA FAME!
5 marzo 2017
Omelia di don Mario del 5 marzo 2017 - testo tratto dalla registrazione, non rivisto dall'autore
Letture: Gen 2,7-9; 3,1-7; Sal 50; Rm 5,12-19; Mt 4,1-11
Care amiche, cari amici,
Gesù è scaraventato dallo Spirito Santo nel deserto, non mangia per 40 giorni, viene tentato dal diavolo, è esposto ad alcune suggestioni interiori che lo mettono in una condizione di lotta.
Perché Gesù passa 40 giorni nel deserto e non mangia?
Ecco, dovremmo sempre ricordarci che nella spiritualità cristiana “non mangiare” non è letto con i significati che vengono dati nel contesto delle filosofie e delle religioni orientali dove, per esempio, non mangi, assumi la pratica della rinuncia per diventare più padrone di te stesso, impassibile, meno condizionato dai bisogni, al fine di ridurre il più possibile la pressione dei tuoi appetiti.
Ora, non c’è dubbio che abbiamo bisogno di regolare i nostri bisogni per non esserne schiavi, ma non al punto da rimanere distanti e freddi di fronte alla necessità che abbiamo di nutrirci.
Nel caso di Gesù potremmo dire che lui digiuna per 40 giorni proprio per avere fame. Noi abbiamo bisogno di avere fame! Questo ci ricorda la nostra identità di creature, la nostra condizione di figli che hanno bisogno di qualcuno che provveda a loro. Quindi la pratica del digiuno – intesa anche in senso simbolico – non ha lo scopo di renderci più resistenti ed impassibili, ma mira alla crescita e alla comprensione del nostro appetito e ancora di più alla capacità di educare il nostro desiderio al cibo che non perisce, alla Parola e alla prospettiva di Dio. Alla “tavola della vita” talvolta ci presentiamo come voraci predatori, talvolta senza neppure il sufficiente appetito, come avessimo perso il gusto, la curiosità, il desiderio di esplorare la vita. Siamo come saturi, fin troppo sazi. Dunque, il digiuno – da tanti punti di vista – va colto come esperienza di rinnovamento e di purificazione, come pratica che svela la complessità del nostro cuore, i suoi desideri disordinati, per avere un appetito più fine, più delicato, più intelligente.
La Storia della Salvezza, fin dall’esordio del libro della Genesi che abbiamo ascoltato oggi, ci racconta come Dio abbia voluto da subito provvedere al bisogno dell’uomo di nutrirsi. Il testo ci offre la descrizione simbolica della nascita dell’uomo e della donna e viene detto che l’uomo e la donna sono posti in un giardino molto bello: il paradiso è carico di piante e di vegetazione di ogni tipo, frutti buoni, succosi, dice il testo “deliziosi allo sguardo,… appetibili”. Dio ha provveduto perché tutti noi potessimo mangiare e deliziarci di questo. Ma il serpente (possiamo considerare la potenza della sua voce interiore in noi…) presenta il sospetto che Dio non si occuperà di noi, che anzi ci impedisca di realizzarci, che vieti all’uomo di cogliere il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male per tenerlo in una condizione miserabile. L’uomo è tentato dalla prospettiva di farsi arbitro del cosmo, di decidere che cosa sia bene o male. Soprattutto, percepisce nel limite non il perimetro che fa risaltare la bellezza della sua creaturalità ma la mancanza che umilia le sue attese di felicità. Detto ciò, la tentazione – in quanto tale – non è male in sé ma l’occasione per maturare ed esercitare la propria libertà.
Fin da subito l’uomo e la donna sono tentati.
La buona notizia che ci arriva oggi dalla liturgia è che tutto questo è normale. È tanto normale che anche Gesù vive questa condizione. Non è possibile non essere tentati. Potremmo dire così: non è possibile che tu non abbia appetito. Quando non hai appetito vuol dire che non stai bene! È sano avere appetito. Certo, la Parola di Dio vorrebbe educare il nostro appetito perché non ci rassegnassimo a ingerire ciò che non è buono. Ma non possiamo pretendere di non essere provocati da opzioni negative, distruttive. Cosa succede in noi quando la tentazione si fa avanti?
C’è un monaco siriaco – Giovanni Climaco (VII secolo) – che ha scritto un libro che si intitola “La Scala del Paradiso” che dice così: “I demoni (i pensieri cattivi) ci dicono prima del peccato che Dio è misericordioso, dopo la caduta invece che Egli è inflessibile” (San Giovanni Climaco, La Scala del Paradiso).
In questa breve descrizione, ditemi se non viene svelato il processo di seduzione e capitolazione che può attraversare la nostra coscienza. Un attimo prima, siamo allettati da qualche cosa di appetibile, da una suggestione che – pur sapendo menzognera – ci presenta sotto forma di bene qualcosa che sappiamo sbagliata. La tentazione si presenta persuasiva, ci convince che “non è poi così grave cedere”, che “lo fanno tutti”, che “per una volta ci si può lasciare andare”, che “dobbiamo pur saziarci”. Ma, un attimo dopo, quell’apparente consolazione si rivela tossica, l’amarezza pervade il nostro palato e ci scopriamo delusi. E temiamo davvero di non poterci più recare di fronte alla bontà di Dio. Ma come mai succede questo?
C’è un altro monaco, Pseudo Macario che, per descrivere la complessità del cuore, dice così: “Il cuore è un piccolo ricettacolo; vi sono draghi, leoni, animali velenosi e tutti i tesori di malizia, vi sono sentieri aspri e scabrosi, e precipizi. E al tempo stesso là vi è Dio e anche gli angeli, la vita e il regno, la luce e gli apostoli, le città celesti, i tesori di grazia, in esso è ogni cosa”.
Dobbiamo accettarlo: nel nostro cuore ci sono il caos e il paradiso. Nel Vangelo, Gesù descriverà questa dinamica raccontando la parabola del grano e della zizzania. Nel terreno fertile il nemico della natura umana ha sparso seme cattivo ma occorrono pazienza e discernimento: attenzione a voler estirpare in maniera troppo rapida e furiosa quell’erba cattiva, perché si rischierebbe di strappare anche il frutto buono! Piano! Ci vuole delicatezza verso se stessi. È inevitabile che nella vita tu ti debba confrontare con le provocazioni del male. Non puoi evitarlo: accettalo! Fidati di Dio! Accetta soprattutto la tua condizione di creatura, non vivere come frustrazione la tua debolezza. Nelle minacce e nei pericoli Dio non ti abbandonerà. In effetti, proprio quando siamo un po’ alle strette, quando siamo nel deserto potremo finalmente recuperare la nostra identità di figli amati, che non hanno bisogno di mascherare la propria fragilità, che non devono affannarsi nel tentativo di accaparrarsi chissà quali sicurezze. Tu per Dio vali! Tu per Lui sei prezioso! A prescindere! Non per quello che hai conquistato, non per quello che hai costruito, non per i titoli di studio, non per il conto in banca o il potere. Non per quello! Il tentatore gioca sulle nostre insicurezze. Ci ha provato persino con Gesù, che però ha assunto sul serio la natura umana, senza barare. Il Figlio di Dio si è spogliato della sua onnipotenza per entrare volentieri nella nostra carne. Gesù non fa giochi di prestigio: non trasforma le pietre in pane. Ma confida totalmente nel Padre. Ecco, quando siamo spogliati, messi alle strette, quando siamo scaraventati nel deserto, lo Spirito di Dio ci fa scoprire la benedizione della nostra creaturalità.
A questo proposito, vorrei raccontarvi la vicenda di spogliazione, l’esperienza di deserto di Simona.
Simona è nata a Torino, fa la psicoterapeuta, è molto carina, ha notevoli abilità e competenze. Economicamente autonoma, è un’ottima atleta, corre le maratone ed ha giocato in una squadra di basket che è arrivata fino alla serie A2. Con il suo fidanzato fece un viaggio in un paese africano. Non per fare esperienze missionarie, ma un safari, una bella vacanza. Da tempo, Simona non aveva più una pratica religiosa e mentre si trovava in questo paese incontrò, casualmente, un monastero fondato da monache italiane che vivono ormai lì da anni. Ad esse si sono unite le prime giovani consorelle africane. Questo incontro le creò una prima grande provocazione interiore. Quando tornò a casa, oltre a lasciare il fidanzato, si rimise in gioco, riprese il suo cammino spirituale e decise di fare un’esperienza in questo convento africano. Salutò tutti, i clienti del suo studio, le sue compagne di squadra, partecipò all’ultima maratona e partì.
Dopo qualche mese io stesso le feci visita laggiù e quando vidi Simona, lei mi raccontò di quei primi mesi di deserto in cui si era trovata spogliata di tutto e disse: “Sai, sono arrivata qui e mi hanno detto di occuparmi della cucina, di fare da mangiare… far da mangiare voleva dire andare a recuperare la legna, accendere un fuoco e in quel pentolone cucinare per tutti… io che non sono capace a cucinarmi neanche un uovo… mai fatto in vita mia! Le monache africane furono sorprese dalla mia incompetenza…mi chiedono come avessi fatto fino a quel momento! Come me l’ero cavata? Allora mi hanno proposto di occuparmi del pollaio, delle capre… le capre?! Le capre scalciano! Mi fanno paura anche le galline! E di nuovo le monache mi hanno chiesto “Ma che cosa hai fatto in questi trent’anni!?”, non sapevo combinare nulla! Mi hanno chiesto che cosa facessi a Torino e ho risposto che facevo la psicologa, tentai di spiegare loro in che cosa consistesse questa professione…Dissi che la psicologa è una professionista da cui vanno le persone che hanno dei problemi e che chiedono una mano. La psicologa ascolta, parla e aiuta le persone a tirarsi fuori dai loro problemi. E loro si stupirono del fatto che io per questo fossi pagata: “dare consigli è un lavoro?” Per loro era assurdo. Nei loro villaggi se qualcuno non sta bene, le persone si aiutano… non c’era mica bisogno dello psicologo!”.
Simona ha dovuto prendere atto che lì i suoi titoli di studio, le sue competenze, le sue passioni non servivano a niente. Ditemi se – quando ci raccontiamo – non abbiamo la tentazione di dire chi siamo partendo dal nostro curriculum.
Non che sia sbagliato avere un lavoro che ti piace – se ti è andata bene – avere delle passioni, acquistare delle competenze: ottime cose! Però il rischio è che a queste cose – pur buone – diamo il potere di definire la nostra identità più profonda. E questo è sbagliato! E te ne accorgi quando sei nel deserto, quando hai perso il lavoro, quando trovi frustranti certe situazioni, quando incontri la malattia…e se prima di tutto non hai guadagnato un sentimento di stima verso di te perché esisti, perché Dio ti ha voluto, perché sei un figlio amato, ecco…ti senti smarrito. A volte è sano finire con le spalle al muro, precipitare nel deserto per recuperare questa verità: tu sei un figlio amato, non lasciarti distrarre da altro. Non dobbiamo dare alle cose il diritto di decidere della nostra felicità, il potere di definire la nostra identità. Nel deserto – dice il Vangelo – gli angeli si mettono a servire Gesù. Dio con i suoi angeli, ogni giorno, accompagna e sostiene il nostro cammino.